Il pensiero e la preghiera, di Vito Mancuso, da Repubblica 3 aprile 2020.
I milioni di persone davanti alla tv per il Papa e per il rosario segnalano un bisogno di pregare che forse si riteneva superato. Ma cosa significa pregare? Nel 1916 Wittgenstein si trovava sul fronte orientale della Prima guerra mondiale mentre si scatenava il più grande attacco nemico, la cosiddetta Offensiva Brusilov. In mezzo a perdite altissime la sua azione ebbe un certo rilievo, visto che il 1° giugno venne promosso caporale e il 4 decorato. Pochi giorni dopo, l’11, colui che diventerà uno dei più grandi logici e filosofi del Novecento, annotava: “Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio… Pregare è pensare al senso della vita”. Nelle trincee del fronte, tra il sangue e la sporcizia, Wittgenstein pregava pensando al senso della vita …
Ma
pregare è veramente pensare al senso della vita? Pregare viene dal
verbo latino precari da cui anche l’aggettivo “precario”. Ovvero: chi
non ha problemi non prega, chi è nella precarietà prega. Le parole non
mentono. A sua volta l’etimologia del verbo pensare viene da pesare: chi
pensa pesa, soppesa, pondera, dà un peso alla realtà.
Che peso ha la realtà? Prendiamo la natura che in questi giorni ci
mostra il suo volto terribile: che peso ha? Domandarselo significa fare
della mente una bilancia che pondera i vari argomenti a favore del senso
o del non-senso della natura, del suo essere madre o matrigna. Lo
stesso vale per la vita, la morte, l’amore, la bellezza, il diritto, il
divino e chissà che altro: che peso hanno tutte queste cose? E che peso
dare loro nella nostra esistenza? Porsi queste domande significa
pensare, pensare al senso della vita. Ma perché allora Wittgenstein
scriveva che “pregare” è pensare al senso della vita?
Il rigore del pensiero esige che si valutino i singoli argomenti in
modo obiettivo, senza sbilanciarsi a favore del bene o del male, ma
piuttosto collocandosi “al di là del bene e del male”. Noi però non
siamo solo freddo pensiero: siamo anche passione, desiderio, volontà. E
quando in noi si afferma questa dimensione calda, il pensiero non è più
puro ma diviene di parte, parteggia, si fa partigiano. Chi prega è un
partigiano della realtà: del suo senso e della sua carica positiva. Se
la mente di chi pensa è una bilancia che pesa in perfetto equilibrio, la
mente di chi pensando prega è una bilancia sbilanciata a favore del
bene rispetto al male, della vita rispetto alla morte, del senso
rispetto all’assurdo.
Per questo la preghiera è al congiuntivo. Se fosse puro pensiero, essa
sarebbe all’indicativo, come Emanuele Severino ritrascriveva il Padre
nostro: “Padre nostro che sei nei cieli, è santificato il tuo nome,
viene il tuo regno, è fatta la tua volontà”. Ma la preghiera di Gesù è
al congiuntivo, un modo verbale che non si limita a indicare ma vuole
congiungere, unire ciò che unito non è. Che cosa non lo è? La volontà di
Dio e lo stato del mondo. Il mondo nella sua libertà spesso non
rispecchia la volontà di Dio e per questo Gesù insegnò a pregare al
congiuntivo: “Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”.
L’indicativo è neutrale, il congiuntivo è partigiano.
Io penso che oggi, quando siamo così separati che non possiamo più
neppure darci la mano, tutti abbiamo un grande bisogno di sentirci
congiunti, di sperimentare la forza congiuntiva del pensiero che prega,
cioè parteggi a favore del bene. Questi sono i giorni del congiuntivo.
La preghiera può essere rivolta a un Dio o a una Dea, a un santo o a un
saggio, a una montagna o al mistero muto dietro le stelle. Può essere
fatta di parole o di silenzi. Può essere religiosa o laica. In tutte le
sue forme essa si manifesta come forza congiuntiva. E noi abbiamo un
bisogno immenso di essere congiunti per far pendere il piatto del nostro
amato Paese a favore della salute, dell’armonia, dell’unità. Perché la
vera differenza, diceva Norberto Bobbio e ripeteva il cardinal Martini,
non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.
Pregare significa pensare al senso della vita, perché venga, perché sia
fatto, in qualunque modo ne siamo capaci. Come un secolo fa aveva
intuito Wittgenstein